
Il disegno di legge sulla manovra di bilancio per il 2026 è stato approvato in Consiglio dei ministri ieri. Per finanziare una parte delle spese pubbliche aggiuntive e delle riduzioni di entrate, la manovra dispone di prelevare risorse da banche e assicurazioni. In questo commento parliamo di banche, non perché le assicurazioni siano irrilevanti, ma perché sulle banche (che comunque assicurerebbero il grosso delle risorse) si può fare una considerazione interessante.
Le banche sono antipatiche alla generalità dei cittadini. Pertanto, forte è la tentazione per un governo, per qualsiasi governo, di imporre su di esse tributi speciali, perché è un atto comunque popolare, popolarissimo, nessuno vuole apparire come un loro difensore. Quella stessa forza politica (Forza Italia) che ha opposto resistenza ai provvedimenti su banche e assicurazioni, nelle dichiarazioni pubbliche dei suoi esponenti si è affrettata a negare di agire da avvocato d’ufficio del sistema bancario, affermando di avere solo a cuore principi generali e l’interesse dei risparmiatori.
Il sentimento diffuso di avversione alle banche è vecchio di secoli, si può dire che sia nato con la creazione di queste. Ha ragioni strutturali. Le banche sono intermediari: semplificando molto, raccolgono denaro dai depositanti e lo impiegano per fare prestiti. Ora, depositanti e prestatari hanno interessi speculari, una banca finisce fatalmente con lo scontentare gli uni e gli altri e diviene per questo bersaglio degli strali di tutti. Eventuali sue inefficienze, sordità, burocratismi, acuiscono l’antipatia, non ne sono l’origine.
Nelle economie moderne, nei Paesi avanzati, le banche sono da un lato imprese come tutte le altre, hanno azionisti che desiderano dividendi, per distribuirli devono fare profitti al massimo grado che la struttura concorrenziale del mercato e la regolamentazione prudenziale consentono. La concorrenza è questione dirimente. Se il mercato in cui esse operano è sufficientemente concorrenziale, i profitti che conseguono sono sempre “normali”, non sono mai “further”, e possono essere più o meno alti a seconda della capacità di ciascuna banca di convincere i clienti, con la propria reputazione e le condizioni offerte, a non andarsene da una concorrente, superando, se il cliente è un depositante, gli ostacoli amministrativi che comunque si frappongono al cambio. In Italia la concorrenza nel mercato bancario credo possa dirsi, appunto, sufficiente ed è comunque attentamente sorvegliata dall’Antitrust.
Negli ultimi anni è però accaduto nel mondo un fondamentale mutamento di contesto. Limitandoci all’Europa, la politica monetaria della Banca centrale europea ha reagito agli sconvolgimenti apportati dalla crisi finanziaria globale del 2008 determinando una riduzione dei tassi d’interesse a breve termine fino a zero, addirittura facendoli diventare negativi. Conseguentemente, tutto il ventaglio dei tassi d’interesse di mercato si è abbassato e con esso il cosiddetto margine d’interesse delle banche, cioè il differenziale fra quello riscosso sui prestiti e quello pagato sui depositi. La loro principale fonte di ricavo si è per molti anni inaridita.
La banche italiane hanno risposto comprimendo i costi mediante riorganizzazioni interne e spostando di più l’attività dal credito verso i servizi di consulenza e i ricavi verso le relative commissioni. Ma in quegli anni, grosso modo dal 2008 al 2021, non se la sono passata bene, i loro profitti sono caduti, nel 2009 sono stati negativi. Con l’uscita dai postumi della crisi e la ripresa delle economie (parentesi del Covid a parte) la politica monetaria è radicalmente cambiata, soprattutto quando la Bce si è resa conto che l’inflazione le stava scappando di mano. I tassi d’interesse sono saliti e il margine d’interesse delle banche si è ampliato. A quel punto i ricavi dell’attività tradizionale sono tornati alti e si sono sommati a quelli da commissioni, nel frattempo cresciuti, e ai risparmi di costo, sostenuti anche dalla forte riduzione dei crediti problematici. Conseguentemente, gli utili delle banche sono oggi eccezionalmente pingui.
Il prelievo fiscale su quegli utili è adeguato? In altri termini, le banche pagano oggi poche tasse? La questione si pone perché il sistema tributario italiano è molto complesso e stende sui diversi contribuenti un reticolo di agevolazioni, da un lato, e di balzelli supplementari, dall’altro, che rendono l’equità complessiva del sistema difficile da leggere. Secondo alcuni le banche in Italia godono di fatto di una fiscalità agevolata rispetto advert altri settori produttivi, secondo altri, viceversa, esse vengono tartassate. Il prelievo su di loro e sulle assicurazioni da ultimo congegnato dal governo, da quel che si comprende, rimane di un pelo al di qua di un’imposta vera e propria, configurandosi piuttosto come una contribuzione opzionale. Non è chiaro se e quanto il marchingegno sia stato concordato fra governo e rappresentanti dei soggetti interessati. Comunque, pare di capire che l’opzione verrà massicciamente esercitata.
Si tratta di un compromesso, come sempre nelle decisioni politiche prese in una democrazia. Si fronteggiavano due posizioni entrambe inspire. Quella di voler prelevare risorse presso chi dispone di redditi oggettivamente alti, e quella di non infierire indebitamente su un settore produttivo, banche e assicurazioni, che ha un ruolo speciale nell’economia, di cui costituisce, per così dire, il sistema circolatorio. Il compromesso trovato potrà far storcere il naso ai puristi della finanza pubblica, ma nelle attuali circostanze politiche period inevitabile.
