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I miei sette anni a Torino, la grande crisi Fiat e la malattia dell’Avvocato


Non sono stati facili, tutt’altro, i miei sette anni a Torino. Se metto in fila gli avvenimenti passati sotto i miei occhi – uno per tutti, l’attacco alle Torri Gemelle di New York – ricordo di aver sentito spirare dall’inizio il vento del secolo nuovo, che ancora oggi soffia e spiega molte cose. Ma se ripenso all’orizzonte torinese, del luogo in cui si fa e si stampa questo giornale, credo di non aver potuto mai immaginare cosa mi aspettava: la grande crisi della Fiat, che si riversava pesantemente sulla città. Il suicidio di Edoardo Agnelli. La morte di suo padre, l’Avvocato, seguita poco più di un anno dopo da quella del fratello, Umberto, che aveva preso le redini dell’impresa di famiglia, già in forti difficoltà. Le vendite, le dismissioni, l’ombra della rovina, contrastata come si poteva, della maggior famiglia imprenditoriale italiana. L’avvento di Sergio Marchionne, che non aveva conosciuto l’Avvocato, ma il cui nome period stato suggerito da Umberto, prima di morire. Marchionne passerà alla storia come il salvatore della Fiat e lo stratega della sua internazionalizzazione. Dopo di lui, scomparso prematuramente nel 2018, la stagione di John Elkann, il nipote dell’Avvocato, l’imprenditore che ha proseguito la by way of dello sviluppo globale indicata da Marchionne, ma anche l’editore che ha messo in vendita nei giorni scorsi il gruppo editoriale Gedi, che comprende La Stampa.

Che tutto non andasse bene, lo avevo capito fin dai primi giorni del 1999. Agnelli mi aveva suggerito di andare a curiosare nei preparativi per le celebrazioni del centenario della Fiat. Dopo una visita sommaria al cantiere del Lingotto, teatro dei numerosi appuntamenti in programma, tornai a trovarlo. «E allora? – mi chiese subito – cosa glien’è sembrato?». Risposi che il passato remoto e anche quello prossimo, del secolo che si chiudeva, erano ben rappresentati. In un certo senso anche il presente. Ma se uno cercava tracce per il futuro, non le avrebbe trovate.

«È la mia stessa impressione – confermò l’Avvocato -. Ma d’altra parte, capisco chi ha progettato l’anniversario. La verità, che non avrei immaginato così grave come mi dicono, è che qui non si guadagna più niente». Sentirgli pronunciare quelle parole con un filo di preoccupazione, com’period naturale, mi allarmò. Era l’annuncio della grande crisi con cui la Fiat avrebbe fatto i conti di lì a poco.

Agnelli period un editore curioso dei giornali, italiani e stranieri, che leggeva al mattino advert ore antelucane. Teneva rapporti con molti giornalisti, che catalogava per le varie specializzazioni. Non avrebbe mai telefonato, per dire, a un notista politico per parlare di vicende economiche. Si divertiva a parlare di mafia. E naturalmente di sport, ma solo con chi considerava competente. Diceva sempre che se non avesse fatto il suo lavoro, avrebbe scelto senz’altro il nostro. Nel mio primo mese da direttore, la sera, prima di tornare a casa, passava dalla Stampa, non accorgendosi, o facendo finta, che la sua visita quotidiana nel mio ufficio stravolgeva la liturgia del giornale, all’ora in cui si cominciava a serrare per le chiusure. Chiedeva tutto, aggirandosi per la redazione: la tecnica per fare un titolo, la scelta delle foto, il tempo necessario per scrivere un pezzo. E se gli si rispondeva che dipendeva dall’orario, poteva essere mezzora o un’ora, o di più, alle volte, con una battuta, sdrammatizzava: «Io se dovessi scrivere un articolo come quello che ha scritto lei, forse avrei cominciato stamattina».

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Il suicidio del figlio Edoardo, il 15 novembre 2000, anche se l’Avvocato fece di tutto per apparire forte, lo segnò irrimediabilmente. La mattina in cui accadde mi trovavo a Roma, quando il centralino del giornale mi passò la telefonata del corrispondente da Fossano, un piccolo paese in provincia di Cuneo, individuato da Edoardo perché vicino a un viadotto alto un’ottantina di metri da cui si gettò. Il corrispondente period uno della rete capillare della Stampa sul territorio piemontese, uno di quelli animati da un talento giornalistico innato che univa a un altro lavoro, magari il maestro elementare. Era talmente emozionato che non riusciva a spiegare il motivo della telefonata. «Diretur, diretur», ripeteva, senza riuscire advert andare avanti. Cercai di calmarlo e così mi riferì i fatti mettendoli in fila ma non riuscendo a sintetizzarli: «C’è una Fiat ferma sul viadotto con il motore acceso. Sotto si vede il corpo di uno che è caduto. Sono entrato nella macchina, ho preso il libretto. Risulta intestato a Edoardo Agnelli». «Mi stai dicendo che il figlio di Agnelli s’è ucciso?», replicai. «Diretur, io questa conferma non gliela posso dare. I carabinieri e i vigili del fuoco stanno andando giù per vedere se la vittima ha i documenti addosso». Presi il primo taxi trovato per strada e corsi verso l’aeroporto. Mentre pensavo a come fare un giornale che si sarebbe aperto con la notizia del suicidio del figlio dell’editore, lungo il tragitto, mi raggiunse una chiamata del questore di Torino, Nicola Cavaliere: «È lui. Sto andando a dirlo all’Avvocato». Subito dopo chiamò l’amministratore delegato della Fiat Paolo Cantarella: «Le risulta…?». Non potei che confermare. Rividi tutti, familiari, vertici Fiat e cittadini torinesi, al funerale che si svolse due giorni dopo. Era evidente che l’Avvocato e la moglie Marella avevano accusato un colpo mortale.

Trascorsero meno di sei mesi. Era Pasqua. Mi chiamò per dirmi – quasi fosse mia competenza, da siciliano – che andava a trascorrerla in Sicilia, in una villa affittata da certi nobili in decadenza. Due giorni dopo, ritelefonò per comunicarmi che tornava, la casa period bella ma il tempo cattivo e l’impianto di riscaldamento insufficiente. E sparì, come gli capitava di tanto in tanto. Un mese dopo avevamo un’iniziativa della Stampa a Roma, al Grand Hotel, a cui period stato invitato anche Berlusconi, allora premier. Avevo ovviamente avvertito anche l’editore, e mi aveva assicurato che sarebbe venuto. Quale non fu l’imbarazzo, conoscendo la sua puntualità, nel non vederlo arrivare. E nel non saper che dire se Berlusconi, come avvenne, mi avesse chiesto di lui. Mentre appunto stavamo parlando con il Cav., un cameriere mi chiamò con insistenza per andare a rispondere a un telefono in cabina. Era Agnelli. «Devo parlarle di qualcosa di cui finora non le avevo detto. Ho un cancro. Parto stanotte alle 4 per New York, ma prima vorrei fare un’intervista con lei per rendere nota la notizia». Così, superata la sorpresa dell’annuncio, mi predisposi all’appuntamento notturno. Fu più complicato del previsto, perché l’Avvocato non voleva adoperare la parola “cancro”, ma qualcosa di simile, “affezione cancerosa”. Obiettai che period lo stesso, e infatti la mattina dopo le agenzie di stampa non fecero giri di parole. L’intervista, materialmente, non si fece. Agnelli mi mise solo al corrente, più o meno, di come si period accorto del problema, partendo proprio dalla villa siciliana in cui si pativa il freddo. «Poi lascio fare a lei», aggiunse, chiedendomi di non liberare il testo prima che potesse rileggerlo al suo atterraggio in Usa.

Da quel giorno, non ebbi più notizie. Non ne chiedevo, né me ne arrivavano. Finché a novembre mi richiamò: «La vorrei rivedere e parlare un po’ dei conti del giornale. Andremo insieme in elicottero a Villar Perosa». Mi ritrovai di nuovo a casa sua, sulla collina torinese, prima di ripartire per la residenza storica di famiglia, e lo rividi per la prima volta, da quando mi aveva detto che period malato. Leggermente dimagrito, aveva una buona cera. Il pilota sorvolò i tetti dei capannoni di Mirafiori, in parte abbandonati. Affacciandosi all’oblò, l’Avvocato commentò: «Non riesco advert accettare che tutto questo non valga più niente!». In un certo senso period la prosecuzione del discorso cominciato a proposito del centenario, la conferma che un modo per salvare la Fiat, malgrado l’accordo, nel frattempo, con General Motors, ancora non s’period trovato. Il pomeriggio a Villar Perosa, le collezioni cinesi a cui teneva molto, la conversazione in terrazzo (ma non sui conti, che per fortuna andavano bene): le ore volarono. A un certo punto il tono cambiò e mi comunicò che Cantarella stava per lasciare. Era un altro segno dell’aggravamento della situazione del gruppo. Prima che facesse buio eravamo di ritorno.

Il 24 gennaio 2003 la sua morte non ci colse impreparati. Le notizie sul suo reale stato di salute ci arrivavano da uno dei medici, nostro collaboratore. La sera prima ci avvertì: «Non credo che arriverà a domani». Dal file segreto in cui erano raccolte, liberammo le pagine già final che avrebbero accompagnato la notizia della scomparsa. C’erano tutte le grandi firme de La Stampa. Alle dieci del mattino eravamo in edicola con un’edizione straordinaria in bianco e nero, listata a lutto: un omaggio al nostro editore e ai lettori che avevano trascorso la notte al Lingotto per chinare la testa davanti al feretro dell’Avvocato.

Dopo Gianni Agnelli, alla Stampa, è arrivato il fratello Umberto, che prima di mancare, anche lui, il 27 maggio 2004 ha fatto in tempo a stabilire il cambio di formato del giornale, decisione importante nella vita di un quotidiano tradizionale come La Stampa. E dopo Umberto Agnelli è toccato a John prendere le redini dell’Editrice. Oltre che, insieme a Marchionne, della Fiat, portata finalmente al risanamento e all’accordo con Chrysler. Per noi colleghi, John period ancora il ragazzo pieno di curiosità che certe sere, quand’period ancora uno studente di ingegneria, arrivava in redazione e partecipava alla chiusura delle ultime pagine. E a sera tardi, veniva a cena con il gruppo che aveva licenziato il giornale. Ascoltava, più che parlare. E ogni tanto faceva qualche domanda, rivelatrice di un’autentica passione per il giornalismo. È davvero un peccato che sia toccata a lui la dolorosa decisione di dismettere una tradizione editoriale che, di nonno in nipote, si trasmetteva da cinque generazioni.

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